22 mag 2017

Evviva Torino, è vivo il Salone!!!

foto di Samantha Viva
 E finalmente lo possiamo dire, alla fine di questi giorni 5 giorni memorabili, vissuti in un clima di festa mai così caldo e compatto, il Salone del Libro di Torino è stato un successo. Lo dico da autrice, da giornalista, da appassionata, da piemontese d’adozione e da lettrice, convinta che le cose belle debbano essere valorizzate, soprattutto quelle che sono un patrimonio culturale, come lo è questo salone. Trenta candeline spente con allegria, e a dire il vero anche io mi ricordo come la più bella della mia vita la festa dei miei 30 anni. 

Ma andando per gradi, e facendo riemergere la giornalista che è in me, voglio precisare perché e in cosa questo Salone mi sia così tanto piaciuto. Partirei con un dato, che essendo sportiva conosco bene, e che in molti forse avevano sottovalutato: il senso di appartenenza alla maglia. Quella cosa che ti torna fortissima quando stai per perdere, e anche male, e gli avversari provano a prendersi gioco di te, e lo fanno in una maniera così fastidiosa, che ti sale la voglia di dimostrare quanto amor proprio ci sia per quella squadra, che in questo caso è una città ed è un evento legato a questa città. 

Perché da quando abito in Piemonte non ho sentito altro che non sia quanto la cultura abbia cambiato l’aspetto di Torino, quanto siano orgogliosi i torinesi del loro Salone, e anche esperti direi, perché la qualità dei frequentatori abituali di questo evento è davvero alta, e nelle varie edizioni l’ho visto con i miei occhi. Attenti, esigenti e preparati, questi sono i lettori torinesi, e pretendono di non sfigurare in queste occasioni. Ma in questo caso siamo andati anche ben oltre, perché la sfida aveva quasi il sapore di quelle che si giocano in campo con la nazionale, e devo confessare che a sentire il discorso finale di Nicola Lagioia ho sentito lo stesso moto d’orgoglio di quando suonano l’inno nazionale e incredibilmente ancora mi viene da piangere e da sperare.

foto di Samantha Viva
In molti si raccontavano o ci raccontavamo anche, che avere un evento legato ai libri in due città così vicine e così diverse, rappresentative a loro modo di due fette di editoria molto marcate e che si sono volute addirittura separare fisicamente, non potesse che far bene a tutti. In realtà una parte di me lo pensa ancora, ma solo se questo avvenisse con tempistiche e modalità del tutto diverse da quelle che hanno mortificato Milano in giornate così ravvicinate al Salone di Torino e così sbagliate per la concomitanza con il ponte tanto agognato legato al 25 aprile – sebbene non ci fossero poi tante date libere, da più parti si udiva, quasi fosse una giustificazione – il finale sarebbe stato diverso, non nella sostanza ma almeno nella forma. E invece non c’è giustificazione, se di fondo l’intento era quello di scippare a Torino un evento unico, se tutti noi lo abbiamo vissuto come un divorzio in casa, se i grandi editori hanno fatto muro e se l’unica motivazione da sventolare restava quella della vocazione milanese per i grandi eventi. 

Ma il Salone di Torino è molto di più, non un evento per chi potrebbe essere lì o in un supermercato qualunque a comprar libri, è proprio un tempio – vandalizzato e tanto, negli ultimi anni – e come in un clima di fede e spiritualità culturale ha riabbracciato finalmente i lettori, veri protagonisti. E poi un SalTo senza grandi editori si può in qualche modo accettare ma per chi come me ci va da anni per scoprire le chicche, la valorizzazione che questo ha portato alle piccole e medie case editrici è stata il giusto riconoscimento dopo anni di ombra e di nicchie di settore.


foto di Samantha Viva
Poi questo Salone è stata una scoperta personale, il fatto di avere così a portata di mano grandi autori, per me, autrice piccolina e in cerca sempre di modelli e di ispirazione, è stata un’opportunità unica. Ho vinto le ritrosie che mi frenano sempre, quando si tratta soprattutto di parlare di sé (perché se si tratta di parlare degli altri o di sentirli per lavoro è un’altra storia), e mi sono buttata in discussioni stimolantissime con colleghi che adoro, come Emanuele Giordana, con cui condivido l’amore per l’Afghanistan e spero un giorno di raggiungere la metà della sua esperienza su quel contesto, e soprattutto con Brian Turner. Perché vedete, non è così scontato che uno scrittore americano, appena tradotto in Italia, se ne stia nello stand del suo editore, in questo caso NNEditore, come fosse un tipo qualsiasi, e se ti avvicini e gli dici che vuoi parlare con lui della sua esperienza pazzesca, sorridendo ti dica: “Certo!”. E se poi ti trovi davanti allo stand del tuo editore (Bonfirraro) con il tuo libro in bella mostra, in mezzo agli altri anche se non è una nuovissima edizione ( e di questo lo ringrazio) e accenni a Turner che hai fatto un reportage dall’Afghanistan e lui resta così colpito da volerlo leggere, farti una dedica piena di ammirazione sul suo per contraccambiare e dirti di restare in contatto, dopo che centinaia di persone sono venute in ben due incontri a sentirlo parlare del suo “La mia vita è un paese straniero”, questo fa molto pensare a quel concetto di comunità a cui si allude quando si fa cultura, dal più piccolo al più grande, e di solito è quest'ultimo ad essere grande anche nell'umiltà.

Perché penso che quel concetto di repubblica democratica e culturale ideale, che è nata in questi giorni a Torino e che mai come quest’anno ha condiviso emozioni e sorrisi fisici e social, è davvero un evento di portata unica, che sancisce un momento importante, per riprendere le parole di Lagioa “il momento in cui l’Italia può davvero essere un modello per gli altri paesi e per una volta non il contrario”.

E poi il tema, lasciatemelo dire, con il libro a scavalcare il muro, con la cultura a cercare di andare almeno per una volta “oltre ogni confine” è stato uno dei più belli di sempre. Ha reso giustizia ai libri e a chi vive – e in certi contesti muore – per testimoniare come la chiave di tutto sia la cultura, visto che le barriere, prima di essere fisiche sono sempre culturali. E dentro quei padiglioni così affollati, per una volta, nessuno le ha sentite queste barriere, questi confini tra chi scrive e chi legge, chi presenta e chi ascolta, che non è stato, come spesso accade, il binomio di chi produce e di chi consuma.
Anche se di cultura ne abbiamo consumata tanta, come di passi tra gli i libri e le parole, tra i volti di chi c’era per la prima volta e chi per la decima, come in una piazza dove ti ritrovi a bere con gli amici invece che dentro un piccolo angusto locale dove si entra su prenotazione.

Dulcis in fundo questo Salone mi è piaciuto perché come ogni anno ritrovo i miei colleghi, che però sono anche gli amici di questo grande laboratorio in fieri che è il mondo della cultura italiana, dove ognuno di noi prova a mettere mattoni sperando che un giorno verrà fuori una costruzione, dove ognuno di noi mette impegno e sudore, spesso ripagati solo da un breve riconoscimento fugace, o nemmeno quello, il più delle volte. Ma poi ci credi lo stesso, perché non puoi farne a meno. 

foto di Carmen Memoli
E quando ti ritrovi con 8 splendide autrici, accompagnate da altrettante blogger, giornaliste e molte di queste amiche, di età ed esperienze diverse - Mariuccia La Manna con Rosa Caruso (La FeniceBook), Cinzia Nazzareno con Maria Anna Patti (Casa Lettori), Ismete Selmanaj con Antonia Storace (MyWhere), Marcella Spinozzi con Debora Lambruschini (Critica Letteraria), Serena Ricciardulli con Giulia Ciarapica (Giulia Ciarapix), Alina Rizzi con l’unico uomo, Livio Partiti (Il posto delle parole), io con Fabiola Cinque (MyWhere), Simona Zeta con Viviana Calabria (Emozioni in font) - tutte riunite insieme, e a moderarti c’è Annarita Briganti, per scandire i tempi di un lungo racconto corale fatto di tante voci diverse, dalla denuncia al racconto di formazione, dal romanzo storico al reportage, dall’autobiografia al collage di vite, dalla caduta al riscatto, tutto ritrova il suo senso più grande, in un panel voluto da un editore appassionato e lungimirante come Bonfirraro è, la risposta al perchè mi è piaciuto questo salone sembrerebbe ovvia.


foto di Carmen Memoli
Ma in fondo, dopo tutte queste parole, sono finalmente in grado di dire perché questo Salone mi è piaciuto così tanto, perché fuor di retorica e di morti annunciate e scampate, fuori dai siparietti in cui l’editoria spesso si incarta e fuori da ogni forma di autocompiacimento, questo Salone è stato una voce unica e vera e ha parlato al cuore di tutti noi. Grazie Torino, e arrivederci al 10 maggio del 2018.




17 mag 2017

In attesa del #SalTo30 torniamo a Tempo di Libri





 La vicenda. In principio fu la polemica. L’annuncio delle dimissioni di Federico Motta, presidente dell’Aie (Associazione Italiana Editori), dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, che controlla e amministra il Salone del Libro torinese, aveva già fatto presagire aria di cambiamenti nel febbraio dell’anno scorso. Da lì, tra colpi di scena estivi, in cui nasceva l’ipotesi di un evento da realizzare a Milano, appoggiato da 17 delegati Aie su 32 presenti alla riunione, alla rivolta per la decisione presa in solitaria, fomentata dal resto degli editori - che scelgono di fatto di uscire dall’Aie e di organizzarsi da soli il proprio storico Salone, tradizionalmente affidato a Torino - tutta una serie di passaggi hanno portato alla nascita di due saloni del libro, uno tutto milanese e uno da sempre torinese. 

Tempo di Libri vede così la sua nascita nei luoghi di Fiera Milano Rho e in molti spinti dalla curiosità ci rechiamo a visitare questa sua prima edizione, svoltasi dal 19 al 23 aprile. Il primo impatto, proseguendo verso la Fiera, è l’assoluto senso di straniamento che coglie chi sta andando a vedere un evento così importante e non trova nemmeno un’indicazione lungo il tragitto interno che dalla stazione porta ai padiglioni, e peraltro i milanesi non ti sono molto d’aiuto (molti mi confesseranno anche dentro di non aver mai visto il Salone del libro di Torino e non sapere che ce ne fosse uno lì). Milano sembra sonnecchiare ancora, poche persone in giro - ma ci spiegano che le date sono quelle del lungo ponte che la città aspettava per tirare il fiato e andare in vacanza - ma dopo l’ultimo scalino eccoli lì, due cartelli e una freccia, a indicarmi Pad. 2 e 4. 

Differenze ed analogie. Entrando fila e biglietteria sono in un’unica hall, e questo porta a confluire tutti lì, addetti, stampa, visitatori, scuole...ma si scorre in fretta. Eppure è Sabato, sono le 10.30, sono tra le prime ad entrare. Impressioni? Mi trovo davanti ad un déjà-vu; spazi, disposizione, stand, quasi identici al salone torinese, un salone però fatto solo dai grandi editori - alcuni si vocifera stiano prenotando in exstremis un posto anche a Torino - e alcuni piccolissimi - che non è vero che hanno tutti scelto Torino, ma sono relegati qui in angoli che dopo un primo giro non ritroverai mai più, non aiutato dalla cartina e dal suo cervellotico ordine non numerico né alfabetico -, manca quello per cui vale la pena andare ad un salone e non in libreria, la media editoria, la nicchia. Individuo la Sala Stampa, spazio comodo e accogliente (qualche ora dopo però diventa subito superaffollata e quindi si capisce che è un po’ piccola, ma in compenso contiene anche un mini rinfresco che ai giornalisti non dispiace mai, e la possibilità di intervistare al suo interno gli scrittori). Gli eventi sono ripartiti nelle sale che prendono i nomi storici della tipografia: Arial, Bodoni, Calibri, Cambria, Courirer, etc e tra i vari incontri si alternano alcuni grandi nomi della letteratura contemporanea internazionale e i più rappresentativi del panorama nazionale, sia nella narrativa che nella saggistica. 

Il bilancio. Qualche giorno dopo rifletterò sull’articolo di Francesco Piccolo che parla di questi scrittori invitati ai festival come di una grande compagnia di giro, presenzialista e un po’ autoreferenziale, e come dargli torto...per il momento però quello che noto, al di là dei numeri finali - 60.796 presenze in Fiera, cui se ne aggiungono 12.133 nelle 100 sedi del Fuori Fiera - scarsi, rispetto ai 130mila di Torino, è la mancanza di innovazione, di spunti nuovi, di idee (il brivido della puntualità e di incontri a cui puoi assistere senza restare fuori non è sufficiente), la sensazione insomma che Milano abbia perso un’occasione, quella di essere se stessa. In attesa di vedere come risponderà Torino e se sarà in grado di cogliere un’opportunità da uno sdoppiamento, forse un po’ programmatico già nel tema “Oltre il confine”, l’appuntamento è dal 18 al 22 maggio al Lingotto Fiere, per vedere se la fenice risorgerà con Lagioia - direttore editoriale da ottobre 2016, dopo Ernesto Ferrero - dalle sue ceneri.

(estratto da un articolo pubblicato sulla Fedeltà, settimanale della provincia di Cuneo, il 3 maggio 2017)